La mostra Irish in Italy a Roma
L’ultima tappa del “tour italiano” – dopo Pisa, Livorno, Firenze e Arezzo, è stata a Roma: ero stata invitata da Antonio Bibbò, uno studioso infaticabile ed entusiasta di tutte le cose che hanno a che fare con Irlanda e letteratura irlandese, a partecipare ad una discussione incentrata sulla sua recente mostra a Roma, “Irish in Italy”.
Antonio è attualmente ricercatore (assegnatario di una borsa di studio Marie Curie) in Italianistica presso l’Università di Manchester, e non si è lasciato sfuggire l’occasione di allestire la mostra come parte della commemorazione di quest’anno dell’Easter Rising del 1916.
Era stato anche incuriosito dalla recente pubblicazione di Lost Between / Tra Una vita e l’altra, un’antologia di opere di scrittori irlandesi e italiani contemporanei, pubblicata da New Island in Irlanda e Guanda in Italia.
Questa antologia è stata il frutto di un vivace scambio letterario italo-irlandese, fondato da Federica Sgaggio e da me, nel lontano 2011. Per Bibbò, questa iniziativa è stata ancora un’ulteriore prova dei forti legami letterari che sono sempre esistiti tra i nostri due Paesi.
La Biblioteca Nazionale di Roma (Biblioteca Nazionale Centrale), che ospita la mostra “Irish in Italy” fino al 7 gennaio 2017, è un imponente edificio situato su Viale Castro Pretorio, vicino alla linea B della metropolitana, a pochi passi dal centro della città.
Si tratta di una delle due biblioteche nazionali centrali d’Italia – l’altra si trova a Firenze.
Inaugurata nel 1876, i suoi interni sono oggi eleganti, moderni e invitanti. Uno dei recenti cambiamenti è la trasformazione fantasiosa e attenta di tutti i suoi grandi, luminosi spazi aperti, in spazi espositivi.
Quando Antonio ci accompagna per tutta la mostra, la sua passione per il tema è contagiosa. Il risultato della sua ricerca ampia e accurata è un’impressionante, per non dire illuminante, esplorazione dell’interesse e affetto per l’Irlanda che è stata a lungo in evidenza in Italia.
Voglio qui sottolineare i temi che ho trovato particolarmente affascinanti – ma c’è molto da ammirare e da gustare in questa mostra. È un’esperienza resa ancora più piacevole dalla grafica chiara e colorata che ne costituisce parte integrante.
La permanenza di Joyce a Pola e Trieste è già ben nota. Quando visitò Roma, nel 1906, ebbe l’idea originale di Ulisse – ma fu in primo luogo come un drammaturgo che giunse all’attenzione del pubblico italiano.
Nel 1920, Enzo Ferrieri – un appassionato promotore di letteratura irlandese – pubblicò l’unica opera teatrale di Joyce, Esuli, nella sua rivista letteraria “Il convegno”.
Ma già nel 1906 Mario Borsa stava dedicando grande attenzione al teatro nazionale irlandese e questa ricettività nei confronti della scrittura irlandese è stata rispecchiata nello sviluppo dei rapporti diplomatici tra i due paesi.
Questi legami alle prime armi sono stati supportati dal Collegio Irlandese a Roma e da ecclesiastici come Ernesto Buonaiuti.
Durante la prima guerra mondiale, poi, Carlo Linati introdusse i drammaturghi dell’Abbey Theatre al pubblico italiano.
Gli eventi del 1916, tuttavia, ebbero particolare risonanza in Italia. The Rising fece notizia in tutto il mondo – ma i reportage degli eventi della settimana di Pasqua “furono filtrati attraverso le agenzie di stampa britanniche” e la maggior parte dei giornali italiani favorirono la posizione britannica.
Ci sono state alcune voci di dissenso – in particolare quella del socialista Dino Fienga e del rettore del Collegio Irlandese Michael O’Riordan, i cui opuscoli, pubblicati con una velocità sorprendente in seguito alla settimana di Pasqua, hanno tentato di fornire una versione dei fatti più favorevole ai ribelli e alla complessità della rivolta. Anche Joyce vi ha giocato un ruolo, diffondendo notizie dell’Irlanda attraverso articoli, conferenze e traduzioni.
Ma il dissenso è stato frammentato, e il punto di vista ufficiale britannico sui moti di Pasqua del 1916 ha continuato a dominare.
Tuttavia, la successiva guerra d’indipendenza ha cambiato le cose. “Le notizie di violenze e persecuzioni perpetrate dalle truppe britanniche contro la popolazione civile” hanno dato vita a un movimento generale in Italia che ha sostenuto l’indipendenza irlandese – un fronte che comprese cattolici, socialisti, nazionalisti e il nascente movimento fascista.
Quando i fascisti salirono al potere nel 1922 “mostrarono interesse per gli sviluppi politici” che avevano luogo in Irlanda. In effetti, dalla metà degli anni 1930 in poi, Antonio scrive che “gli intellettuali fascisti vedevano echi del proprio movimento nell’Irlanda di Eamon de Valera e nelle Blueshirts di Eoin O’Duffy, così come nel conflitto costante con la perfida Albione”.
L’Italia entra in guerra contro la Gran Bretagna nel giugno 1940 e, successivamente, si è dimostrata pronta a dare “un orecchio favorevole” in Irlanda. La seconda guerra mondiale ha visto un boom in Italia in pubblicazioni sull’Irlanda, o forse più esattamente un boom di pubblicazioni sulle atrocità coloniali britanniche.
Sono rimasta particolarmente incuriosita dalla esplorazione della crescita improvvisa di interesse per la letteratura irlandese in Italia durante la seconda guerra mondiale. Basandosi sul principio che la difficoltà dell’Inghilterra è un’occasione per l’Irlanda, gli anni della guerra videro un periodo d’oro nelle relazioni italo-irlandesi.
Bibbò cita “l’ostilità condivisa delle due nazioni verso il Regno Unito” come la genesi di questa nuova e crescente consapevolezza della specificità culturale irlandese. Il Joyce “europeo” godette di nuova e maggiore attenzione, insieme a quello che Bibbò definisce “the truly Irish” Yeats, Synge e O’Casey, e i “cosiddette oriundi, scrittori irlandesi nati all’estero come Eugene O’Neill”.
Un altro motivo della popolarità del teatro irlandese negli anni ‘40 era il fatto che la pubblicazione e/o messa in scena di testi in lingua francese e inglese era stato vietato dall’Agenzia italiana del Copyright il 6 giugno 1940. I teatri italiani hanno dovuto trovare un’alternativa – ed è ciò che fecero.
Come conseguenza del divieto, “gli autori di lingua inglese che avevano fino a quel momento poca o nessuna associazione con l’Irlanda hanno cominciato improvvisamente ad essere presentati come irlandesi”. Tali nomi inclusero Eugene O’Neill, George Kelly da Philadelphia, che godette di un cognome irlandese, e anche Emily Bronte: tutti furono “presentati come irlandesi”.
Questo sotterfugio ha permesso alle opere di O’Neill di essere rappresentate, così come quelle di Yeats, Synge, Wilde, Lord Dunsany e, soprattutto, Sean O’Casey. Va notato che lo stratagemma ha significato anche la possibilità di “schivare il pagamento delle tasse di stage, e, nel vero spirito del fascismo, minare il dominio culturale inglese”. Gli irlandesi erano ovunque: anche Pier Paolo Pasolini, da adolescente, mise in scena “spettacoli di Synge nel suo salotto”.
Lo spazio mi impedisce un’ulteriore discussione delle tante suggestioni di questa mostra vivace e stimolante.
Mi resta solo da dire: se siete a Roma, andate a vederla.
Antonio Bibbò ha fatto un lavoro superbo.
La mostra Irish in Italy è stata in parte finanziata dall’Ambasciata d’Irlanda a Roma.
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