Violenza di genere e letteratura: intervento per ‘Nelle Scarpe di Lei’, 9 febbraio 2018

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Violenza di genere e letteratura: intervento per ‘Nelle Scarpe di Lei’, 9 febbraio 2018, Firenze, Librerie Universitarie Novoli.

Harvey Weinstein.

Kevin Spacey.

Woody Allen.

Fino a qualche mese fa, il nome di Harvey Weinstein era sinonimo di film come ‘Pulp Fiction’, ‘Shakespeare in Love’, ‘Gangs of New York’.

Allo stesso modo, Kevin Spacey, fino a qualche tempo fa, era il volto irresistibile di ‘House of Cards’. Una serie TV dedicata a esplorare che cosa accade a chi è ossessionato dalla brama di potere, e ciò che a un tale desiderio si accompagna: la corruzione personale e politica. Il personaggio di Spacey è un Macbeth di oggi, così come Robin Wright una indimenticabile Lady Macbeth.

Woody Allen invece è sempre stato ritenuto un genio, l’amato autore di ‘Io e Annie’, ‘Manhattan’, ‘Vicky, Cristina, Barcelona’… E potrei continuare.

Nomi famosi, nomi che ci sono familiari da molto tempo.

Nomi, adesso, associati ad una fama ben diversa, oscura e sinistra.

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Il 10 novembre 2017 si leggeva sul New York Times:

‘In quello che sembra un vero e proprio terremoto rispetto alla tolleranza sul posto di lavoro verso certi comportamenti, una valanga di uomini di alto profilo, molti dei quali nel mondo del giornalismo e del cinema, sono stati costretti a dimettersi o licenziati dopo le accuse di condotta sessuale inappropriata, che va dai commenti inappropriati allo stupro.’

L’articolo proseguiva con una lista di 51 uomini di potere: politici, giudici, attori, dirigenti del settore dell’informazione, soprattutto negli Stati Uniti, che si erano dimessi o erano caduti in disgrazia in seguito alle accuse di molestie sessuali a danni di donne a loro sottoposte sul posto di lavoro.

C’erano altri nomi, dozzine di nomi, che non ci dicevano niente, ma erano sempre i nomi di uomini che avevano esercitato, e abusato, della loro posizione semplicemente perché potevano permettersi di farlo.

Mentre scrivo il terremoto è ancora in corso. Altri nomi, altre rivelazioni, altri episodi in cui il codice del silenzio, una specifica forma di omertà, veniva spezzato.

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Il terremoto di cui scriveva il New York Times ha dato il La alla campagna #MeToo sui social media. Una tempesta di accuse, una protesta che in tutto il mondo è seguita alle rivelazioni su Weinstein, coinvolgendo donne di tutte le estrazioni sociali, creando un catalogo di abusi che ha sorpreso, e sconvolto, molte di noi.

Ma era forse ancora più terribile il fatto che molti non fossero affatto sconvolti.

Perché a quanto pare questo segreto-non-segreto è stato il lato oscuro della luminosa facciata di La La Land per molti anni, un segreto che cresceva e cresceva, favorito da una onnipresente acquiescenza.

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Come scrittrice ho sempre trovato affascinante l’idea del silenzio. Il silenzio, in tutte le sue forme. Il potere che il silenzio ha nel soffocare il dissenso. L’uso che il potere fa del silenzio, come se fosse un’arma. Come il silenzio, e con esso la paura e l’isolamento, siano interdipendenti: un triumvirato distruttivo che è al centro di tutte le forme di abuso.

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In particolare il mettere a tacere la voce delle donne è al centro dei miei ultimi due romanzi, ‘Un Terribile Amore’ e ‘Come Cade la Luce.’

Entrambi si rifanno alla mitologia greca. Nell’antica Grecia la voce della donna non era ascoltata, il narrato delle donne non era permesso. Il silenzio usato come un muro contro i diritti delle donne non è certo soltanto un fenomeno moderno, quindi. Telemaco nella ‘Odissea’ di Omero ordina a sua madre di tacere. Parlare riguarda solo gli uomini, dice Telemaco.

Per definizione, anche l’essere ascoltati era appannaggio degli uomini,  e possiamo dire che anche questo ha attraversato i secoli.

Nei classici ascoltiamo raramente le voci delle donne, e questo è uno dei motivi per cui voglio essere sicura che la voce dei miei personaggi femminili risuoni forte e chiara mentre cercano di navigare le acque, spesso limacciose, di un mondo fatto dagli uomini per gli uomini.

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Il NY Times nell’articolo si riferisce a un continuum di abusi che potrebbero iniziare con un ‘commento inappropriato’ ma possono finire con lo stupro, o comunque forme gravi di molestie sessuale. Io credo che qui sia proprio il concetto di continuità dell’abuso a essere fondamentale. Troppe volte, nella mia esperienza, la reazione di una donna a un comportamento inappropriato è stata bollata come ‘mancanza di senso dell’umorismo’, o ‘eccesso di sensibilità’, ‘fraintendimento’, oppure ‘prendersi troppo sul serio’.

In altre parole, la colpa ricade sempre sulla donna. Il commento inappropriato non è più un problema: è il modo in cui la donna reagisce a diventarlo.

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Nel mio libro appena uscito, ‘Come Cade la Luce’, ho voluto esplorare un altro aspetto di quel continuum: l’esercizio del controllo nel contesto di una relazione intima.

La violenza contro le donne è una questione di potere e controllo. L’ultimo grado del controllo è l’uso della violenza fisica: ma ci sono molti, molti altri modi più sottili di esercitare il controllo: tornerò più tardi su questo aspetto specifico.

Per adesso basterà dire che la manipolazione: emotiva, sessuale, materiale è una forma di controllo e quindi un abuso di potere che fa parte di quel tossico continuum.

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Parlare per le donne, alzare la testa, anche semplicemente con un messaggio su Twitter o Facebook, può causare una risposta motivata dalla volontà di mettere a tacere le questioni sollevate dalla voce stessa delle donne.

In molti modi i social media espongono individualmente all’abuso, e l’abuso può essere stalking, cyber-bullying, intimidazione. Ho visto troppi casi di donne che levavano la loro voce contro le ingiustizie divenire vittime, soprattutto su Twitter, di ogni sorta di minaccia e vigliaccheria.

Nel 2011 lessi l’articolo di una giornalista inglese, Laurie Penny.  Scriveva:

‘Una opinione, a quanto pare, è ciò che su Internet corrisponde alla minigonna: averne una e ostentarla sembra corrispondere a chiedere a una massa di leoni da tastiera quasi completamente costituita da uomini di farti sapere come ti violenterebbero, ti ucciderebbero, orinerebbero su di te.’

Mary Beard, l’eccezionale accademica inglese, è stata vittima di abusi simili quando ha “osato” esprimere una opinione contraria a quella di un establishment maschile male informato e pieno di pregiudizi.

Laurie Penny ha deciso di rendere pubbliche le minacce ricevute, e il risultato è stato il dimostrare che la sua esperienza personale era ben lungi dall’essere unica: dozzine di donne hanno cominciato a condividere le loro storie di abusi, intimidazioni, stalking.

Tali comportamenti su Twitter sono un’altra chiara indicazione di come mettere a tacere la voce delle donne sia così tanto culturalmente pervasivo  da, spesso, non notarlo neanche.

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Rispetto a esperienze come queste il problema è che non possiamo separare questo tipo di comportamento abusivo da tutti gli altri comportamenti abusivi, quelli che vanno a costituire quel continuum che porta alla violenza sulle donne nelle strade e nelle case.

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Nel corso degli anni mi sono imbattuta in molte osservazioni interessanti a riguardo delle regole che governano le relazioni tra uomo e donna: osservazioni di scrittrici, spesso. Ho sempre ammirato Margaret Atwood, e devo ammettere che mi colpì in maniera estrema la sua affermazione:

‘Gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro; le donne hanno paura che gli uomini le uccidano.’

Questa affermazione sorprendente era il risultato di una sorta di esperimento, il chiedere, da parte della Atwood, a uomini e donne, in maniera totalmente casuale, che cosa temessero di più. Una domanda che sarebbe poi stata fondamentale per una trasmissione televisiva statunitense sulla violenza di genere andata in onda dodici anni fa.

Gli uomini temono l’umiliazione di fronte alle donne. Temono il proprio fallimento, il sentirsi inadeguati.

Le donne devono temere lo stupro, l’assalto sessuale, l’omicidio per mano di un uomo.

O meglio, e voglio sottolinearlo: per mano di alcuni uomini. Non tutti gli uomini, ma alcuni uomini.

Ovviamente c’è anche la violenza perpetrata da uomini su uomini: lo vediamo nelle strade, in continuazione. Anche uomini sono stati vittime di assalto sessuale nell’industria dell’intrattenimento e, sicuramente, anche in altri contesti lavorativi, come abbiamo appreso di recente: la scoperta di comportamenti inaccettabili e infami non è ancora finita.

C’è anche la violenza perpetrata dalle donne sugli uomini: ugualmente inaccettabile. Ma i numeri ci parlano di una straordinaria prevalenza di casi di violenza contro le donne, per mano di uomini, e tanto di violenza da parte di sconosciuti, quanto di violenza all’interno della apparente sicurezza delle relazioni private.

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Alcuni anni fa mi sono imbattuta nel lavoro di una scrittrice americana, Rebecca Solnit, in cui (l’autrice) tenta di analizzare le problematiche che una società patriarcale non riesce neanche a riconoscere come tali. Raccomando caldamente il suo: ‘Men Explain Things to Me’, ‘Gli uomini mi spiegano le cose’ (Ponte alle Grazie, 2017).  E una di quelle problematiche è, di nuovo, il silenzio: il ridurre al silenzio la voce delle donne.

Non vi sottoporrò a un bombardamento di dati statistici, ma ce n’è uno in particolare su cui mi fermo sempre a riflettere, e su cui si devono considerare le differenze tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Irlanda o Italia: una donna su cinque sarà violentata o sarà vittima di violenza di genere.

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Sono cresciuta credendo che gli abusi domestici non potessero accadere nelle case della rispettabile classe media. Che cose del genere potessero accadere soltanto là dove c’erano povertà, mancanza di educazione, ignoranza. Era ciò che si pensava in Irlanda, almeno a quel tempo. Qualcosa che avevo assorbito da ragazza, una convinzione per liberarmi della quale ho impiegato anni.

Circa trenta anni fa una mia amica che veniva picchiata dal marito ebbe bisogno di mesi prima di poter essere in grado di dire la verità: negare, tentare di sfuggire all’evidenza e mentire erano assolutamente preferibili al dover ammettere che il suo rispettabile, facoltoso marito la picchiava.

E passarono anni prima che imparassi che gran parte delle donne aggredite subisce violenza tra le mura domestiche fino a trenta volte prima di essere capace di “confessarlo”, e uso questa parola specifica per ragioni precise.

‘Confessare’ perché il senso di vergogna è tale per le donne che subiscono questa esperienza da sentirsi in colpa. Nel caso di violenza da parte di una persona con cui si abbia una relazione, il pericolo di ulteriori episodi violenti è inevitabile.

Le ricerche dimostrano che la paura di subire di nuovo violenze è ancor più terrificante della violenza in se stessa. Quando il colpo va a segno, viene spesso descritto come “un sollievo”. Spesso il partner violento prova rimorso dopo l’atto di violenza. Tale manipolazione incoraggia la donna a credere che “non voleva farmi del male”, così da rendere possibile la riconciliazione con l’aggressore e ricominciare l’intero ciclo.

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La triste verità è che il potere di chi abusa è su quelle donne tale da far assumere loro la responsabilità dell’attacco che subiscono. Come mi disse una volta una psicoterapista: ‘Le donne si assumono la responsabilità tanto quanto gli uomini attribuiscono la colpa.’ È una delle tristi verità di una relazione tossica, violenta. ‘Perché mi hai costretto a fare questo?’ è spesso la domanda dell’uomo che si giustifica.

Come se il peccato di essere stata aggredita fosse sulle spalle della donna; come se la vergogna ricadesse sulle spalle della donna per non essere ciò che dovrebbe, o per non obbedire a qualche regola non scritta che non è stata capita.

Ancora, il mettere a tacere è un’arma potente, dagli effetti devastanti. È ciò che permette all’intollerabile di prosperare.

Nello stesso modo l’intollerabile prosperava nel regno di Weinstein e suoi simili. Stai zitta o ti puniremo. Non potrai più lavorare; non mangerai; non avrai successo. Questo è il nostro mondo, entra a tuo rischio e pericolo.

Ci sono diverse forme di violenza.

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Ho visto la sorpresa sulle facce degli uomini che conosco in caso di conversazioni su questi temi, sui potenziali pericoli di cui tutte le donne sono ben conscie, nelle proprie case e fuori.

Uomini buoni, gentili; uomini che sono figli, mariti, amanti, fratelli e padri devoti: il genere di uomini che, per fortuna, è quello con cui più ho avuto a che fare.

La loro reazione quando sentono di tutte le precauzioni che una donna prende in pubblico senza neanche pensarci, per esempio, è tra le più sorprese. L’espressione sulla loro faccia quando parliamo di donne che si organizzano per non lasciare mai da sole un appuntamento serale, per prendere un taxi in coppia; che si preoccupano di avere già in mano le chiavi di casa quando arrivano, di evitare certe strade; il dover mettere in guardia una figlia che esce per andare in discoteca contro il rischio di bevande drogate, o sul come vestirsi: improvvisamente le differenze tra mondo degli uomini e mondo delle donne divengono spaventosamente visibili. È come se la violenza che ‘è là fuori’ dovesse essere data per scontata, e che sta soprattutto alle donne prevenirla, tanto nella sfera pubblica quanto in quella domestica.

Altrimenti come spiegare per esempio il fatto che, in un campus statunitense in cui erano stati perpetrati diversi stupri, si è chiesto alle studentesse di stare ancora più attente, di rientrare nei dormitori prima del buio, di fatto limitando i loro movimenti nelle ore notturne?

Perché quel coprifuoco non era stato imposto ai maschi?

Perché il peso della responsabilità veniva spostato da chi esercitava un crimine a chi ne era la vittima potenziale?

Perché?

Come il resto del continuum di cui abbiamo già parlato, anche questo aspetto è parte di una attitudine culturale: se una donna viene stuprata, è perché ‘se l’è cercata’. O l’attitudine rispetto al fatto che se una donna dice di ‘no’ a un atto sessuale, in realtà non dica davvero di no, perché in realtà vuole essere convinta e quindi quel ‘no’ non ha alcun valore: può essere ignorato, prevaricato, messo a tacere.

Uno dei ruoli che la narrativa può giocare è proprio quello di dare voce a queste domande e di costringerci a dare delle possibili risposte, per portare finalmente alla luce istanze lasciate nell’oscurità.

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In Irlanda come in Italia e sicuramente anche altrove, la ‘famiglia’ è centrale nella organizzazione della società. In Paesi in cui è la norma, levare la voce sulla violenza che accade all’interno di quello ‘spazio sacro’ può essere pagato con un prezzo molto alto. L’atto stesso di ‘tradire’ i segreti della famiglia, o della comunità di appartenenza divengono un crimine, un crimine che prende il posto di quello realmente perpetrato.

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Rebecca Solnit si chiede perché nessuno abbia dichiarato guerra alla pandemia della violenza contro le donne, diffusa in tutte le società che abbiamo citato. Negli Stati Uniti il numero di donne uccise in tre anni – ogni tre anni! – dal partner supera il numero totale di morti dell’11 Settembre.

Ogni tre anni. Di nuovo, di nuovo e di nuovo ancora. La Solnit sottolinea anche il fatto che ‘il coniuge è la causa primaria di morte per le donne in stato interessante negli Stati Uniti’.

Guardando anche altrove, lo stupro e l’omicidio di Jyoti Singh su un autobus a Delhi ha mosso l’India e il mondo intero a protestare contro la condizione delle donne nella più grande democrazia del mondo.

In questo stesso momento: adesso, oggi, nel 2018: a oltre sessanta milioni di ragazze nel mondo è negato l’accesso all’educazione di base, e questo semplicemente perché sono di sesso femminile.

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Povertà. Una società feudale. Ignoranza.

È estremamente chiaro il fatto che questi fattori alimentino una attitudine violenta contro chi è considerato più debole, o meno importante, in una società tormentata dal perdurare di un antico sistema di caste che non ha uguali nel resto del mondo.

Ma ecco le parole dell’avvocato difensore di uno degli assassini nel processo per l’omicidio di Jyoti Singh, intervistato dai documentaristi della BBC che hanno prodotto, ‘India’s Daughter’:

L’avvocato Singh ha dichiarato:

‘se mia figlia o mia sorella avessero rapporti prima del matrimonio mettendo in disgrazia se stesse, senza alcun dubbio prenderei mia figlia o mia sorella, le porterei alla mia fattoria e lì, davanti all’intera famiglia, la cospargerei di benzina e le darei fuoco.’

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Credo che sia giunto il momento di spostare l’attenzione di questa nostra discussione di stasera. Femminicidio, abuso, violenza contro le donne: abbiamo troppa familiarità con le forme che possono assumere. Talvolta un problema che sembra così immenso, così fuori controllo, ci paralizza.

Dobbiamo resistere alla paralisi.

Dicevo prima del ruolo che io credo la narrativa possa avere nell’esaminare la complessità delle relazioni umane. Perché la narrativa fa i conti con la realtà: non necessariamente con i fatti, ma con la verità, perché c’è, tra questi due concetti, una fondamentale differenza.

Io credo che il lavoro artistico, creativo, ci dia la possibilità di accedere agli angoli più bui della nostra psiche: ci aiuti a dire l’indicibile. Romanzi, film, opere teatrali e di poesia giocano un ruolo importante nell’esplorazione della trama di cui sono intessute le nostre vite quotidiane, in un modo che ci aiuta a comprendere meglio noi stessi e gli altri.

Nel grande schema delle cose questo ruolo può sembrare ininfluente, ma io credo che invece sia significativo, e che sia qualcosa da promuovere in ogni modo.

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L’arte naturalmente è solo uno dei modi in cui rispondere alla crisi attuale. Perché di crisi si tratta: la violenza contro le donne è ovunque, tanto sommersa quanto evidente.

Forse più le donne divengono indipendenti, autosufficienti, visibili, più è forte la minaccia per chi vorrebbe che ce ne stessimo al nostro posto. Quel ‘posto’ che è quello di un essere umano inferiore, con minori diritti e una minore possibilità di essere ascoltato. La violenza contro le donne non è semplicemente parte di una ‘questione femminile’: è un problema di diritti umani ed è un dovere di tutti non ignorarlo.

Mettere in discussione le attitudini culturali comporta sforzi enormi: questo vale in Irlanda come in Italia, in India come in Afghanistan. Ho visto di recente come alcune campagne estremamente efficaci abbiano, nel mio Paese, messo in discussione vecchie rigide abitudini.

Nel 2015 ha vinto il Sì nel referendum per il matrimonio tra persone dello stesso sesso. La campagna per il sì è stata appunto estremamente efficace. Orchestrata brillantemente, è stata un capolavoro rispetto al fatto che soggetti con diversi programmi sono riusciti a mettere da parte gli interessi personali e le differenze per raggiungere uno scopo superiore.

La campagna si è guadagnata il supporto di personalità molto diverse tra loro, unite tutte nel voler dare la possibilità alle loro figlie e ai loro figli, fratelli, sorelle di avere un trattamento di uguaglianza di fronte alla legge.

Credo che questo referendum, e il suo esito, siano stati una ‘tempesta perfetta’: era il prodotto del collidere tra un cambiamento di paradigma culturale, già in atto, perfettamente colto dagli organizzatori della campagna. Gli incontri e i dibattiti mostravano la passione individuale; il Labour Party ha fatto sentire il suo peso nella campagna nazionale.

Adesso abbiamo bisogno della stessa energia e dello stesso impegno per emendare la legislazione – o, forse, la mancanza di legislazione – sull’aborto in Irlanda, una mancanza che contravviene alla carta dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.

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Quest’anno ci sarà in Irlanda un referendum per rimuovere un articolo dalla Costituzione, quello che eguaglia il diritto alla vita del feto al diritto alla vita della madre.

Di conseguenza abbiamo per l’aborto una ‘soluzione irlandese’, per cui migliaia di donne lasciano ogni anno l’Irlanda per avere un aborto sicuro e legale nel Regno Unito.

E questo come in precedenza abbiamo avuto una soluzione irlandese per il divorzio, per cui agli uomini che abbandonavano un matrimonio infelice era consentito allontanarsi e scomparire per sempre nell’anonimato protettivo di una città inglese.

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La migliore forma di educazione è una forte mobilitazione dell’opinione pubblica. Se vogliamo avere successo nel cambiare l’attitudine pubblica generale nei confronti delle donne, contro il voltarsi da un’altra parte di fronte agli abusi di cui siamo a conoscenza o di cui sospettiamo, l’educazione deve avere una valenza ben più vasta rispetto a ciò che si impara tra le mura di scuola.

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E che dire delle legislazioni?

In inglese si dice: ‘la legge è un asino’. Talvolta una legge può anche peggiorare la situazione. Sono sicura che abbiamo tutti in mente casi di ordinanze restrittive contro un partner violento che non hanno fatto altro che rendere la donna ancora più vulnerabile agli attacchi.

Spesso i legislatori sembrano insistere sul punire un atto già accaduto, invece di prevenire il verificarsi dell’abuso.

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Abbiamo bisogno anche in questo caso di una tempesta perfetta sulla questione della violenza di genere: un cambiamento di paradigma culturale, lo spezzare il silenzio e l’accettazione che accompagnano il sentirsi autorizzato, per un uomo, a voler esercitare il controllo sulla partner. Abbiamo bisogno di una radicale rieducazione delle nostre comunità. Tutti cambiamenti necessari che non possono prodursi se non dopo aver preso piena coscienza delle molte aree in cui, ancora oggi, esiste disparità tra uomo e donna.

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Mi chiedete se spero che questi cambiamenti siano possibili? Assolutamente sì.

Una quarantina d’anni fa una donna che lavorasse come impiegata statale o in banca sarebbe stata costretta a licenziarsi, alla soglia del matrimonio.

Una trentina d’anni fa il divorzio era impensabile.

Dieci anni fa il concetto di matrimonio gay era praticamente incomprensibile.

E spero di potervi dire, tra qualche mese, che anche la visione cattolica sull’aborto, una visione fino a ora supportata dallo Stato irlandese, sarà cambiata anch’essa.

I cambiamenti di paradigma culturale sono possibili. Ma bisogna lavorare per renderli possibili. Lavorare per essi su molti fronti.

Non può essere altrimenti: per renderli possibili abbiamo bisogno di donne e uomini che li rendano tali in nome dello spirito della nostra comune umanità.

In ultima analisi la violenza contro le donne è  la ‘Guerra al Terrore’ che deve essere combattuta su tutti i fronti: culturale, legale, filosofico, educativo, politico e personale insieme.

Catherine Dunne

Traduzione Maria Grazia Mati e Massimiliano Roveri.

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